27 apr 2009

Il 25 aprile di Berlusconi

Il Cav cambia il 25 aprile e ne fa la festa della libertà di tutti

di
Gaetano Quagliariello
27 Aprile 2009

L’antifascismo fu implicitamente proclamato religione civile ufficiale della nazione nel 1960, quando la DC approdò sul terreno imposto dal Pci: accettò di considerare il governo Tambroni potenzialmente golpista, e insieme ai comunisti caricò la convocazione di un congresso dell’Msi a Genova - città martire della Resistenza - di significati simbolici che andavano ben oltre le reali intenzioni degli organizzatori.

Quell'antifascismo, simbolicamente festeggiato da allora e ogni anno il 25 aprile, è finito sabato a Onna. Berlusconi, col suo discorso, non si è arreso alla “vulgata”, come l’avrebbe definita Renzo De Felice. Ha pacificato la memoria e ha provato a dettare una versione dei fatti più storica e, per questo, più inclusiva.

La memoria, si sa, è selettiva. Per forza di cose divide. Privilegia un punto di vista e spesso sgorga impetuosa da una presunzione di buona fede personale, in nome della quale si pretende di avere ragione al cospetto del tribunale della storia. Erano in buona fede la gran parte dei ragazzi di Salò. Erano in buona fede tantissimi partigiani che, oltre alla liberazione del Paese, ambivano a sostituire la dittatura sconfitta con un totalitarismo peggiore, che essi però ritenevano - sempre in buona fede - portatore di giustizia e di pace sociale. A nessuno deve essere negata l’umana comprensione. Ma a entrambi la storia ha dato torto. Un torto differente che va indagato e precisato, sfuggendo alle automatiche equivalenze.

Dalla memoria alla storia: questo è il passaggio che si è compiuto il 25 aprile in Abruzzo. Il premier, infatti, ha concesso alla memoria tutti i suoi diritti, muovendo dai suoi personali ricordi. Poi, però, li ha ricompresi in un affresco più ampio, perché solo così essi possono perdere la loro forza particolare per accettare di divenire tessere di un patrimonio condiviso dell’intera nazione.

Già nel recente passato uomini politici e capi di Stato avevano contribuito ad “allargare il discorso” sottolineando, ad esempio, l’importanza del sentimento patriottico nella Resistenza o il ruolo dell’esercito. Sabato Berlusconi è andato oltre. Rispetto alla “vulgata”, il suo discorso ha inserito almeno tre elementi di novità, in realtà già da tempo accertati dalle indagini storiche ma non per questo ricompresi nel discorso ufficiale.

Ha consacrato il ruolo decisivo degli alleati, e innanzi tutto degli americani: piaccia o non piaccia, senza il loro apporto il sacrificio di tanti partigiani sarebbe stato vano.

Ha evidenziato come le difficoltà degli anni successivi alla liberazione furono dovute, in gran parte, alla mancanza delle condizioni storiche che consentissero alla categoria dell’antifascismo di divenire parte della più ampia categoria dell’antitotalitarismo.

E infine, accanto agli atti eroici e ai sacrifici più nobili ha collocato quegli episodi di umana pietà, di carità individuale maturati spesso in quella zona grigia che si sviluppò lontano dal fervore ideologico e nella quale la Chiesa svolse un ruolo troppo spesso dimenticato e a volte negletto.

Insomma: Berlusconi si è prefisso di rinnovare la tradizione, chiudendo i conti con il passato e fornendo gli elementi affinché essa non si consumi progressivamente e, per questo, possa essere compresa e coltivata dalle nuove generazioni.

Passare dalla festa della liberazione alla festa della libertà: la si può pensare come si vuole, ma non si può negare che si tratti, in potenza, di una ambiziosa operazione culturale. Di fronte alla sua grandezza le recriminazioni di Franceschini appaiono, in piena luce, quel che sono: tentativi ostruzionistici tanto pretestuosi e privi di sostanza da scadere nell’irrilevanza.

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