Un’autentica schizofrenia caratterizza oggi la politica dei diritti umani nel mondo. Si tratta di una sensibilità estrema, raffinata e dettagliata verso la politica dei diritti umani quando si tratta, da un lato, di rapporti verso determinate categorie sociali e politiche o verso temi legati alla nostra società, e dall’altro, invece, di una progressiva indifferenza verso gli stessi temi quando si affrontano scenari internazionali. E’ una suddivisione sperimentale, primitiva, che aspetta ancora una definizione migliore che spero venga dalla discussione. Ma di certo possiamo dire che negli anni passati, gli Stati Uniti si sforzavano di chiudere il gap nella sensibilità verso i diritti umani: le dottrine politiche che ne hanno guidato la politica estera, di cui ora non discuto gli inevitabili problemi, partivano dall’idea che l’oppressione dei popoli era un problema che penetrava direttamente la politica interna, e che comunque ogni uomo sulla terra, come ha scritto Natan Sharansky, desidera la libertà e ha diritto di perseguirla.
E’ stata una naturale espansione del modo di vita americano, in cui lo stato di diritto, il rule of law, si deve estendere dentro i confini storicamente negoziati dell’accordo religioso e linguistico. L’Europa invece ha fatto del dettato dei diritti umani una specie di dottrinale trattato di 170 pagine di regole oppressive che definiscono una moralità post moderna di “non discriminazione” che di fatto mette a rischio le identità locali valorizzando principi astratti, e con i suoi annessi e connessi ha stabilito regole di “diritti umani” per ogni minuzia, principi astratti e severissimi per cui essi precedono i diritti della comunità primaria, e anche prescindono dalla situazione di fatto. Farò degli esempi più avanti. Penso però ai giudizi sbagliati sulla politica italiana verso l’immigrazione, ma soprattutto sulla incapacità, per esempio, di dare valore alla libertà degli iraniani mentre la si dà a quella dei rom di andare a scuola anche se assolutamente la loro società si rifiuta di farlo, preferendo usare i bambini per altri scopi. Penso alla discussione sul burqa e sul diritto delle donne che lo desiderano a indossarlo, ignorandone completamente i molteplici significati oppressivi o di sfida a una società di diritti; penso alle furiose proibizioni sul fumo, alla difesa del diritto di un giornale svedese di scrivere che gli ebrei estraggono organi dai palestinesi, che uccidono apposta, al divieto in alcune scuole di appendere il crocifisso e di fare l’albero di Natale, alla proibizione patente di disegnare una vignetta che faccia ridere dell’Islam, a denunciare pubblicamente alcuni usi e costumi altri come la poligamia o l’escissione. C’è grande confusione dunque sui diritti umani in Europa. Essi vengono confusi con un profondo senso di intimidazione. E dagli USA all’Europa è sempre giunto un segnale di chiarezza, un’indicazione storica sui termini dell’integrazione, sul legame fra democrazia e tradizione giudaico-cristiana.
Oggi il gap che negli anni passati esisteva fra noi e gli USA sembra ridursi; precisi segnali, come la mancanza di una sottolineatura del tema dei diritti umani dei Cinesi da parte della Segretaria di Stato, l’assenza di critica democratica ai regimi autocratici islamici, la cessazione, proprio ora, dell’erogazione di tutti i fondi federali all’Iran Human Rights Documentation Center, la principale organizzazione no profit che documenta le violazioni di diritti umani in Iran, oltre che la timidezza di certe posizioni relative a Gerusalemme (ricordo invece la presa di posizione di Clinton, che diffidò Arafat dal procedere sul terreno del negazionismo dell’origine ebraica di Gerusalemme) fanno mancare all’Europa da parte degli USA il suo salutare richiamo costante al tema della libertà.
Già da tempo, peraltro, la politica dei diritti umani che il mondo fondò nel dopoguerra con le Nazioni Unite attraversa una crisi mai vista prima. Nel Palazzo di Vetro non è rimasta neppure l’apparenza di una necessità dello spirito alla libertà, l’aspirazione astratta alla realizzazione della democrazia e dell’eguaglianza. La mancanza di una rapida vittoria nelle guerre contro il terrorismo, che di fatto si sono configurate come guerre di civiltà, affrontate recentemente dagli USA e dai suoi alleati, le difficoltà (e non le chiamo sconfitte) legate al tema dell’esportazione della democrazia, hanno incontrato una imprevedibile, accresciuta ostilità del mondo cosiddetto in via di sviluppo, o non allineato, dopo la caduta dell’Unione Sovietica; il mondo islamico, anche quello tradizionalmente più dialogante, ha subito il fascino ideologico dello jihadismo che promette vittoria e un modello di vita identitario e vittorioso, dopo settecento anni di oppressione, nei confronti del consueto nemico occidentale; l’Europa, invasa da migrazioni di popoli per i quali i diritti umani sono ai primordi rispetto al cammino da noi compiuti nella protezione dei deboli (le donne in primis) e la certezza del diritto, ha segnato il suo stupore e la sua paura con una condiscendenza diffusa quasi per ogni dove. E’ ovvio che i popoli, l'islamismo, le culture tribali che hanno acquisito un rilievo e una dignità ideologica mai sfiorati nel secolo scorso, ne abbiano fatto una bandiera politica che si esprime con decisione sul palcoscenico del discorso pubblico internazionale. Intanto, si creavano all’ONU, sempre più larga nel numero, maggioranze automatiche antioccidentali che prima avevano il segno dell’URSS, e oggi quello dell’Islam e del totalitarismo.
Non parlo solo dell’orrore di vedere la tribuna dell’ONU invasa dai vari Chavez che sentono puzzo di bruciato perché di là è passato il demonio americano, o Ahmadinejad che predica lo sterminio degli ebrei e sdottoreggia sulla giustizia nel mondo mentre sta strangolando la sua opposizione, né di Gheddafi che invita a trasferire, e ha ragione, l’ONU nell’emisfero meridionale del pianeta. Ciò che impressiona sono gli abbracci del nicaraguense Miguel d'Escoto Brockmann, presidente della scorsa Assemblea Generale, ad Ahmadinejad, dopo che questi ha appena terminato di evocare la prossima fine del regime sionista; o il fatto che la Svezia, presidente di turno dell’Unione Europea, che rimane in sala durante il discorso del presidente iraniano perché non riscontra che egli, mentre svolgeva il tema della cospirazione ebraica che domina il mondo, abbia sorpassato nessuna linea rossa prestabilita dalla geniale mente dell’Unione Europea.
Non vorrei apparire troppo iconoclasta, ma il presidente stesso degli Stati Uniti, che tra l’altro proprio in questi giorni non ha trovato il tempo per ricevere il Dalai Lama – primo rifiuto della Casa Bianca in 18 anni – perché si prepara a un incontro importante con Hu Jintao a fine mese, mostra un cambiamento fondamentale dell’Occidente rispetto al tema che qui ci interessa, nella sua strana semigenuflessione al monarca saudita, nella sua autentica ed evidentemente sentita politica della mano tesa verso civiltà del tutto prive del concetto stesso di democrazia, nel suo intimo, storico, rapporto con una religione in questo momento all’attacco dell’Occidente in tutto il mondo. Mostra in sostanza una propensione (forse inconscia) alla trasformazione dell’acquisizione dei diritti umani, per come noi li intendiamo, in un tema del tutto secondario.
Bush non avrebbe mai respinto la richiesta di appuntamento con il Dalai Lama in visita a Washingon. Obama certo sa che alla luce di questo episodio, fa più effetto che abbia incontrato Chavez e svariati dittatori arabi. Anzi, George W. Bush fece conferire dal Congresso al Dalai Lama la Medaglia d'Oro, massima onorificenza civile negli States, definendo la guida spirituale tibetana "simbolo universale di pace e tolleranza", nonostante le proteste delle autorità cinesi.
Ho visto personalmente, nel giugno 2007, George Bush a Praga incontrare uno a uno i dissidenti dei Paesi di tutti continenti in cui i diritti umani sono conculcati, inclusa la Russia, la Libia, la Cina, ovvero Paesi la cui rilevanza strategica negli assetti internazionali è fuori dubbio. Per quell’amministrazione, comunque se ne voglia giudicare l’operato complessivamente, il rispetto per una cultura altra ha sempre significato identificarne l’aspetto viable, praticabile, laddove esprime un’aspirazione verso la libertà. Un interessante modo di cercare un sincretismo, per esempio, con l’Islam, o con la cultura orientale o africana. L’idea di sincretismo è in sé legata alla sopravvivenza: due culture si avvicinano e si mischiano per vivere insieme, mentre oggi la premessa della convivenza rispetto alla tolleranza è in piena decadenza. Per esempio, le corti islamiche, poiché non rispettano i diritti umani da noi conquistati, non contengono nessun principio di integrazione o di convivenza, e tuttavia noi in Europa le abbiamo silenziosamente accettate, e abbiamo anche assorbito pratiche come la poligamia, l’escissione, il velo integrale, o riabilitato nei fatti orrori con i quali le nostre società avevano finito di fare i conti decenni fa, come gli omicidi e i suicidi (indotti) d’onore: insomma tutti i problemi dell’immigrazione che di fatto escludono la nostra idea di diritti umani.
La questione dei diritti umani, che credevamo di aver risolto dopo gli orrori della seconda guerra mondiale, invece è tornata la più drammaticamente attuale.
E qui un punto fondamentale: il ruolo di gran lunga maggiore nel condannare a morte i diritti umani lo ha avuto il fraintendimento della questione palestinese con la conseguente nascita di ciò che io chiamo “palestinismo”. Il trasformarsi agli occhi dell’ONU in una questione umanitaria di una questione nata dal rifiuto arabo e nutrita da interessi particolaristici prima e poi dallo jihadismo internazionale, in gran parte foraggiato dall’Iran, è stato letale. L’abnorme quantità di attenzione dedicata dall’ONU alla faccenda e riferibile solo al terzomondismo tipico della guerra fredda da una parte, e dall’altra a una invincibile, storica antipatia verso lo Stato d’Israele, in quanto stato della nazione ebraica, ha un andamento paradossale, che ha martellato a morte la mente occidentale e ha distrutto ogni possibilità di combattere effettivamente la battaglia per i diritti umani.
L’Onu ha trovato il tempo per dedicare un terzo delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza a condannare Israele; ha inventato l’inverosimile formula di sionismo eguale razzismo, nel 1975, a soli tre anni dalla strage delle Olimpiadi di Monaco; è riuscita a trasformare una Conferenza internazionale contro il razzismo, quella di Durban nel 2001, in una conferenza razzista contro Israele e gli ebrei, in cui Castro, Arafat, Mugabe ma anche tutti gli organismi internazionale ufficiali parlavano di nuovo apartheid, citando solo ed esclusivamente Israele come massimo violatore di diritti umani sul globo terrestre; ha tentato di replicare quest’anno a Ginevra, nell’aprile scorso, con la “Durban Review Conference”, ma questa volta molti paesi hanno protestato preventivamente e in questo la decisione dell’Italia di ritirarsi è stata determinante; ha promosso, per mezzo del Consiglio per i Diritti Umani, la Commissione d’inchiesta Goldstone sul conflitto di Gaza le cui conclusioni creano un precedente della cui pericolosità le istituzioni internazionali non sembrano rendersi conto: togliendo a Israele il diritto a difendersi, stabilendo che bisogna arrendersi di fronte al terrorismo sistematico che colpisce e fa uso dei civili come scudo umano, promuove in sostanza il terrorismo in tutto il mondo.
Proprio lo scorso 29 settembre, al Consiglio per i Diritti Umani, la discussione del rapporto Goldstone ha concesso a emeriti violatori di diritti umani quali Yemen, Venezuela, Libia, Iran, Cuba, Pakistan, Sudan, di parlare di “genocidio israeliano”, “crimini contro l’umanità” contro i palestinesi.
La costante vittimizzazione dei palestinesi, l’esclusività dei profughi palestinesi e dei loro discendenti, istituzionalizzata con la creazione dell’UNRWA nel 1949, ovvero l’unica Agenzia dell’ONU che si occupa di uno specifico gruppo di profughi, mentre tutti gli altri sono sottoposti all’UNHCR (UN High Commissioner for Refugees), ha contribuito a fomentare questa concezione “settoriale” di una problematica che si estende invece ai quattro angoli della terra.
Gli organismi di difesa di diritti umani sono guidati da personaggi e paesi cui solo l’idea dei diritti umani fa orrore. Basti pensare che la preparazione della Conferenza contro il razzismo nota come “Durban 2” è stata affidata a paesi come Iran, Cuba, Pakistan, violatori seriali di diritti umani.
Non vogliamo immaginare quali cori di protesta si sarebbero sollevati se si fosse osato proporre una candidatura israeliana alla presidenza dell’Assemblea Generale. Eppure, nessuno ha sollevato un dubbio sull’opportunità della presidenza libica con Ali Treki, che guiderà la 64ma Assemblea inaugurata il 23 settembre.
Recentemente si è evitato un ulteriore scempio per le istituzioni internazionali con la mancata elezione del Ministro della Cultura egiziano, Farouk Hosni, alla direzione del principale ente mondiale per la promozione della cultura. Sarebbe stato ridicolo vedere dirigere l’UNESCO da un personaggio che ha rilasciato in più di una occasione dichiarazioni antisemite e anti-occidentali e che applica la censura nel suo paese nei confronti di chi non è il linea con il governo.
Delle solamente 10 sessioni speciali tenute sino ad oggi dall’Assemblea Generale dell’ONU, 6 sono state dedicate a questioni mediorientali. La decima, che è stata aperta 12 anni fa sotto richiesta del Qatar, è praticamente diventata una commissione permanente sui diritti dei palestinesi (è denominata: “Illegal Israeli actions in Occupied East Jerusalem and the rest of the Occupied Palestinian Territory”). La gravissima problematica che giustifica questa decennale discussione sarebbe la costruzione israeliana del quartiere di Har Homà, a Gerusalemme Est. Non si è chiaramente pensato di interrompere tale esistenziale dibattito o quantomeno di accantonarlo per parlare delle irregolarità delle elezioni in Iran e della conseguente repressione, giusto per citare uno degli argomenti che più hanno infiammato le opinioni pubbliche mondiali quest’estate.
Nel 2008, a fronte delle 28 risoluzioni emesse su Israele dai vari organismi dell’ONU - di cui 6 solo dal Consiglio per i diritti umani – sulla Birmania, per citarne una, sono state formulate solo 4 risoluzioni. In generale, in tutto il 2008, Israele è stato il principale paese condannato per violazioni di diritti umani: 120 atti di varia natura si sono occupati di questo paese, seguito, con grande distacco, da Sudan (47 atti), Repubblica Democratica del Congo (37), Birmania (32), e UDITE UDITE!! Stati Uniti (27). Nemmeno una risoluzione è stata adottata sullo Zimbabwe, che nel periodo marzo – luglio 2008 è stato al centro di grandi polemiche per via delle contestate elezioni presidenziali che hanno provocato scontri, arresti e un numero mai accertato di vittime.
Il 2009 non romperà la tradizione: a oggi sono stati rilasciati 96 atti ufficiali di varia natura riguardo Israele. Sudan: 46; Birmania: 32; Iran: 23, di cui nemmeno una risoluzione, nonostante i riots in corso da giugno.
In questi anni le violazioni nel mondo dei diritti umani sono state, come sempre, gigantesche e aggravate dalla crescita degli scontri religiosi. Il genocidio del Darfur perpetrato dai Janjaweed avvallati dal governo di Omar Al-Bashir; per rimanere in Sudan: nessuna condanna è giunta ancora dall’ONU alla terribile notizia di questi giorni, che per altro ci raggiunge in vergognoso ritardo per via della carenza di operatori dell’informazione su quei territori dimenticati, della crocifissione di 7 cristiani da parte di infiltrati del Lord’s Resistance Army ugandese; non abbiamo idea di cosa sia successo esattamente nella Valle dello Swat nelle operazioni intraprese dal governo pakistano per fronteggiare l’avanzata talebana e che hanno provocato oltre 1 milione di sfollati: l’Onu non ha ritenuto di dovere esaminare gli effetti collaterali della guerra al terrorismo in questo caso; sulla violenta repressione di una manifestazione di Uiguri a Urumqi, la capitale della regione cinese dello Xinjiang, lo scorso luglio, la reazione dell’ONU si è limitata a una dichiarazione dell’Alto Commissario per i Diritti Umani Navi Pillay, nella quale si diceva "alarmed over the high death toll”, notando che si tratta di un “extraordinarily high number of people to be killed and injured in less than a day of rioting”; il “Committee on the Elimination of Racial Discrimination” in un rapporto annuale ha affermato che “Pechino deve garantire maggiore protezione ai vari gruppi etnici”; l’uso micidiale di decine di migliaia di bambini soldati, se ne calcolano 300mila che combattono in varie parti del mondo, la maggior parte sotto i quindici anni; i perseguitati del regime iraniano, torturati, impiccati, per motivi politici, religiosi, per discriminazioni sessuali; le persecuzioni da parte di Hamas degli uomini di Fatah, le loro uccisioni senza processo insieme a quelle di uomini di altre sette contrarie al loro regime…
Tutto questo è rimasto senza risposta. L’idea che “se i palestinesi avessero uno stato…” è sembrata alla fantasia internazionale la panacea dell’aggressione iraniana, talebana, islamista in genere, la palma di pace da porgere in cambio del consenso.
E’ fantastico che nelle risoluzioni del tribunale internazionale sul recinto di difesa il terrorismo non sia stato preso in considerazione, e che oggi la commissione Goldstone non abbia considerato che la sua risposta agli eventi è totalmente disancorata da una realtà in cui diritti umani sono violati innanzitutto dalla parte aggressiva, Hamas. La questione palestinese ha disgregato l’Europa in primis, costituendo il fondamento organico di mutazione del concetto di diritti umani di cui parlavo all’inizio. Essi, e parlo anche per gli USA, sono invece il vincolo ontologico, la linfa vitale su cui costruire il rapporto interatlantico.
Gli USA, nonostante l’11 settembre, non conoscono la paura che striscia nelle città europee, e l’Europa non conosce, o non riconosce, il senso di una guerra contro il terrorismo che restituisca il mondo alla strada della civiltà. E invece di sforzarsi in questa indispensabile reciproca comprensione, ci sforziamo perfino, ciascuno, di cancellare la nostra propria ansia con una politica selettiva che ci allontana da noi stessi, dalla nostra gloriosa storia di diritti umani.
Fiamma Nirenstein è Vice Presidente della Commissione Esteri della Camera dei Deputati e membro del Board di Politica Estera della Fondazione Magna Carta.